La commistione tra politica e calcio, in un paese come l’Italia, è qualcosa di arcinoto e neanche troppo recente. Dai politici che acquistano squadre di calcio ai dirigenti (o calciatori) che tentano la carriera politica, dalle tifoserie politicizzate fino alle interrogazioni parlamentari su ipotetici torti subiti dalle squadre del cuore dei nostri rappresentanti, lo sport più popolare del mondo condiziona da sempre la politica in ogni suo aspetto.
La comunicazione politica e il tono del dibattito pubblico non potevano perciò evitare di essere contagiati da slogan, sfottò, storpiature e metafore provenienti dal mondo del pallone. Dal “tutti in panchina” di Andreotti, a Renzi che promise di non lasciare “passare un giorno senza lottare su ogni pallone”, fino a tutte le volte che abbiamo sentito parlare di “clamoroso autogol” o “partita ancora aperta”, la storia del linguaggio politico italiano è fortemente segnata da questa unione.
La politica che si avvicina alla gente, con un linguaggio semplice, comprensibile e con il quale i 60 milioni di commissari tecnici del nostro paese hanno confidenza.
Silvio Berlusconi e la discesa in campo con Forza Italia
In questo senso, il migliore – se non il primo – a spingere quasi all’eccesso l’intreccio tra il linguaggio politico e quello calcistico è senza dubbio Silvio Berlusconi. Già presidente del Milan – del quale ha sempre detto di essere grandissimo tifoso – Berlusconi parte già dal naming del suo partito: un Forza Italia che lanciato nell’anno dei Mondiali in U.S.A. è molto di più di un semplice slogan. Da qui, alla discesa in campo il passo è breve e, di nuovo, più ancora dei gladiatori che scendono in arena, sono i calciatori a scendere in campo.
Ma l’ultimo ventennio è stato sempre più caratterizzato dall’avvicinarsi del linguaggio e della narrazione politica a quello calcistico, riducendo il tutto a una sfida tra tifoserie.
Il Movimento 5 stelle, gli sfottò e il ‘Capitano’ Matteo Salvini
Sfida tra tifoserie che – al momento – tocca il suo apice con l’arrivo sulla scena del Movimento 5 stelle e di Matteo Salvini, entrambi bravi a polarizzare il dibattito, prendendo spunto proprio dal mondo del calcio. Non è solo quello, per carità, ma gli ultimi anni e in particolare la campagna elettorale per le elezioni politiche del 4 marzo 2018 dimostrano come da cittadini-elettori siamo via via diventati tifosi-passivi, che guardano da fuori un dibattito che ci riguarda.
C’è la nostra squadra del cuore che sta giocando il derby e noi dobbiamo sostenerla, per fare in modo che non vincano gli avversari.
E così, Matteo Salvini diventa sempre più il ‘Capitano’, il condottiero che ci porterà alla vittoria, ricevendo sempre incitamenti a non mollare come “sei grande Capitano”, che fa molto Holly & Benji, ma che può rendere bene l’idea. Ma non solo, questo atteggiamento da derby perenne, da noi contro di loro nell’ultima, decisiva partita del campionato, prosegue anche dopo le elezioni, in un clima di campagna permanente, con l’ossimoro di un Ministro che quando comunica parla solo ai suoi tifosi. Tanto per rimanere in tema calcistico.
Lo stesso discorso vale per la dialettica utilizzata dal Movimento 5 stelle. In questo caso, più che gli esponenti sono i militanti stessi a offrire l’impressione di appoggiarsi sulla tipica comunicazione da tifoso. Cos’è il termine Pidiota se non la trasposizione in politica del rubentino, appellativo con il quale i tifosi italiani apostrofano i tifosi della Juventus?
Potremmo andare avanti ancora per molto tempo con questi esempi, ma il succo è che un linguaggio di questo tipo porta certamente una maggiore affezione da parte dei cittadini, che passano da essere elettori-attivi a spettatori-tifosi. Si convincono, si fidelizzano, chiudono fuori tutto quello che non riguarda la loro squadra del cuore e sono pronti a litigare – anche aspramente – con i tifosi delle squadre avversarie, spesso perdendo di vista dati reali e oggettività.
Tutto questo fa bene? In termini di consenso elettorale certamente sì, ma in termini di contributo al dibattito pubblico?
E gli altri partiti cosa fanno?
Insomma, è una questione di scelte e non tutti sembrano essere d’accordo. In molti casi, i partiti preferiscono ancora arroccarsi sulle loro posizioni oggettive e basate su dati e risultati tangibili evitando di farsi coinvolgere in una partita che potrebbero perdere senza accorgersi che non presentarsi al campo è un metodo certo per ottenere una sonora sconfitta.
Alla fine il dubbio è sempre lo stesso: mi conviene giocarmi la partita sul campo del mio avversario, oppure non giocarla proprio?
Tutto questo mi fa tornare in mente il libro The political brain: The Role of Emotion in Deciding the Fate of the Nation di Drew Westen, che ho letto ai tempi dell’università e che ti consiglio assolutamente.
Magari ne parleremo in un altro blogpost, ma ora chiudo, c’è la partita e io sono pur sempre in italiano 😉
*Fonti immagini: rainews.it, raisport.it, il giornale.it
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